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Chichizola, l’uomo nuovo del Parma

Dal basket al calcio per caso: per colpa di … un’espulsione. La batteria, i genitori medici e tutto il mondo di Leandro: non solo il vice di Buffon, ma un uomo squadra

San Justo, cittadina di 40.000 anime a 25 chilometri a sud di Buenos Aires. Terra di calcio e di basket, la pampa. Nel 2001 si respira aria di cambiamento: in Sud America, un mondo a parte per tradizione e vocazione pallonara, il vento che soffiava sulla Patagonia portava in serbo aria nuova e sorprese anche a livello sportivo. Stava nascendo l’epopea albiceleste, capace di attraversare quattro edizioni delle Olimpiadi e segnare un cammino irripetibile nella storia della palla a canestro. Era il basket di Manu Ginobili e di Scola, Sconochini e Oberto, idoli della folla e secondi solo al re dell’olimpo sportivo: Diego Armando Maradona. A 11 anni, Leandro Chichizola seguiva più il basket che il calcio e, anche per le mirabilie di questi ragazzoni altissimi, l’aveva quasi abbracciata come metafora di vita, la palla a spicchi.

A San Justo, i ragazzi frequentavano i club sportivi dove si praticano tutti gli sport e tra questi giovanissimi c’era anche Leo che restava tutto il giorno fuori casa per giocare a basket, a calcio, a tennis. Alle volte si dilettava in piscina con il nuoto, tornava a casa stanco e con poca voglia di mettersi sui libri. Classico, a quell’età. I genitori lo capivano. Erano a conoscenza del fatto che stesse sempre fuori per giocare con gli altri, nel circolo a 200 metri da casa potevano permettersi di star tranquilli. Nel quartiere li conoscevano tutti, i signori Chichizola: il padre di Leandro è un medico. Ancora lavora. La madre oggi è in pensione ma al tempo faceva la pediatra. In famiglia la vocazione per lo studio ce l’avevano tutti: la sorella di Leandro è psicologa, il fratello cardiologo. In una casa di medici, Leandro era l’unica voce fuori dal coro. Era preso dallo sport, ma neanche lui immaginava che sarebbe diventato un calciatore. Eppure ha cominciato all’Università, salvo lasciarla poco dopo.  

E qui non c’entra Maradona, o chissà chi. Anche lui guardava il calcio da piccolo, chiaro. Con D10S dalla tua parte ti senti protetto, ma quando Maradona stupiva il mondo, Leo guardavo più NBA che pallone. Oltre agli argentini d’oro, eravamo in piena era Jordan e stava per cominciare quella di un altro mito, Bryant. A scuola si andava in canotta, con la 23 più famosa dello sport e si giocava a a basket. Strano, ma vero. Il calcio è subentrato dopo, quando Leo è stato espulso per due anni dalla squadra di basket, il Sanjustino.

Era il capitano e per aver litigato con un arbitro, aveva rimediato una sanzione più pesante: la squalifica comminata per comportamento anti dispiplinare era originariamente di un anno. La pena ha subito un raddoppio a causa della fascia che indossava e Chichizola era inizialmente costretto a rimanere fermo per due anni. Ed è per questo che ha ripiegato sul calcio. Per uno che ha una vocazione sportiva come la sua, uno stop di due anni sarebbe stato troppo pesante. E a 11 anni è entrato nella palestra del circolo con la voglia di intraprendere seriamente un altro percorso. Il suo allenatore, un certo Pjtu Garcia, conosceva la sua storia: sapeva tutto di lui perché era uno degli atleti migliori e si era informato.  “Tu sei bravo con le mani, per me devi giocare in porta“. Ed è li che ha cominciato. Il calcio gli ha dato la possibilità di conoscere poi Maradona, di diventare amico di Mascherano, di scambiarsi il saluto con Messi, e di passare alla storia per aver parato un rigore al 90′ nella sfida contro il Racing al Monumental al collega Saja. Una prodezza che gli ha consegnato un posto importante tra i tifosi del River Plate. 

A Parma è arrivato un portiere di sicuro affidamento, un ragazzo che ha già in mente quello che deve fare e come lo deve fare. Ha convinto tutti sin dalle prime uscite, fuori dal campo è un tipo che passa quasi inosservato. Fa gruppo con la piccola colonia argentina del Parma, con Lautaro Valenti, Vazquez ed Estevez: bevono mate e ascoltano musica delle loro parti in spogliatoio. Mai avrebbe immaginato di lavorare al fianco di una leggenda come Gigi Buffon, di cui apprezzava le gesta dall’altra parte del mondo. E dal suo capitano ogni giorno cerca di imparare. La tradizione degli argentini a Parma è molto florida. Da qui sono passati, lasciando impronte importanti e trofei in bacheca Veron, Crespo e Sensini, Balbo e Ortega. E così via. Adesso c’è lui, calciatore per caso, portiere di professione che sognava di fare il cestista e, se gli fosse andata male con il basket, avrebbe ripiegato sulla musica. Fondando una band: lui sarebbe dovuto essere il batterista!

Fonte (parmatoday.it)

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