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D’Aversa: “Io, Conte, Gervinho e quella volta che…”

Il tecnico del Parma si racconta in un’intervista a DAZN: “Sono un allenatore che pensa sempre al calcio. Sono giovane e ambizioso”

In una lunga intervista concessa a DAZN, Roberto D’Aversa racconta la sua prima stagione da allenatore in Serie A, dopo aver vinto due campionati con il Parma in Lega Pro e in Serie B e dopo l’approdo nel grande calcio, dove mira a rimanerci per un bel po’.

ALLENATORE GIOVANE.Sono allenatore che lavora con passione, 24 ore su 24, come tutti – racconta a DAZN -. E’ un bel mestiere, regala soddisfazioni ma allo stesso tempo è duro perché non ti fa mai staccare. Pensi  a tutte le situazioni possibili, alla formazione, agli infortuni.  Le motivazioni sono le cose più importanti per gli allenatori e per i giocatori di un certo spesso che vogliono dimostrare ancora di poter dire la loro. Soprattutto per quelli che la Serie A non l’hanno mai giocata. Quando il club mi ha chiamato si è preso un rischio. Voler puntare su un allenatore giovane è stato rischioso perché questa è una società importante. Un club di prestigio e io allenavo da un anno e mezzo. In un percorso di crescita ha accompagnato entrambi con i risultati immediati, era francamente impensabile raggiungere in così breve tempo questi traguardi.  Ce li siamo meritati”.

I CENTROCAMPISTI, I MIGLIORI. “I migliori allenatori? Sono italiani e hanno giocato a centrocampo. Hanno una marcia in più rispetto agli altri perché è nel DNA il ragionamento sugli equilibri. Parlo della fase difensiva, soprattutto, ma l’allenatore bravo senza la materia prima non esiste. E’ importante lo spessore dei giocatori. Possiamo dare un ordine, una mentalità, un contributo, ma quello che fa la differenza sono i giocatori. Chi ricopre il ruolo di centrocampista ha un ruolo diverso, una visione diversa. Guardi avanti e indietro e ti abitui a vedere il gioco anche da allenatore. Il terzino destro ad esempio giocando in quel ruolo ha una visione di campo limitata. I migliori allenatori sono quelli che hanno ricoperto quel ruolo“.

CONTE,UN MARTELLO. “Conte? E’ molto legato ai suoi famigliari, io ho avuto la fortuna di conoscerlo perché a Siena con mister De Canio faceva il secondo e giù da lì si capiva la sua forza. Lui vedeva un potenziale diverso in quella squadra, vedeva qualcosa in più rispetto alla salvezza. Non era mai soddisfatto. Lui pretendeva sempre di più“.

GERVINHO, INTELLIGENTE – “Gervinho? Ricordo quel giorno in cui ci fu la possibilità di prenderlo il ds mi disse di chiamarlo. Ma io non parlavo benissimo inglese, lui parla soprattutto francese. Quando non ci si vede è difficile. Si è preoccupato della questione tattica per prima cosa. Più che dei soldi o della qualità della vita si è preoccupato dell’aspetto tattico. Per me è stato importantissimo perché questo è il ragionamento che deve fare il giocatore con un allenatore”.

‘IGNORANTE’ – “Da giocatore segnavo poco. L’unico gol che ho fatto in Serie A fu contro la Samp su punizione. Ci fu la polemica della maglia perché nell’esultare la tirai verso Mignani. Glielo avevo promesso, era una cosa preparata. ma i tifosi sostennero che avessi gettato la maglia. Ma non fu così. Mignani poi la baciò. Da giocatore non mi piaceva perdere, vivevo la competizione, quando perdevo mi lasciavo andare in qualche gesto plateale di nervosismo che non va mai bene. Ero fin troppo ‘ignorante’ in mezzo al campo ma è una caratteristica mia”.

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